Detto anche Il Grande, d’Egitto, del Deserto e l’Anacoreta, Sant’Antonio Abate (251-357) era un eremita egiziano e viene considerato il fondatore del monachesimo cristiano e primo abate della storia.
A citare per primo l’espressione “Catena di Sant’Antonio” fu Alfredo Panzini nell’edizione del 1935 del suo Dizionario Moderno, descrivendola come l’usanza di spedire a più persone una lettera anonima che invitava alla recitazione di una serie di preghiere con lo scopo di salvare il mondo:
(tali preghiere) avrebbero avuto successo solo se il destinatario avesse poi a sua volta inviato la stessa lettera a un tot numero di persone, le quali a loro volta avrebbero dovuto seguire tutta la trafila: il tutto sotto minaccia di sventure tremende che sarebbero accadute a chi avesse interrotto la “catena”.
Nell’evolversi, questa bizzarra consuetudine introduceva anche una richiesta di denaro. Andando ulteriormente a ritroso, la leggenda racconta che Sant’Antonio Abate, scrisse una lettera a Ballachio, duca di Egitto, per intimargli di interrompere le persecuzioni contro i Cristiani, altrimenti la punizione di Dio lo avrebbe ucciso. Per far sì che la sorte gli fosse favorevole, Ballachio veniva esortato a spedire la stessa missiva a tutti gli altri notabili che come lui vessavano i credenti. Il duca d’Egitto ignorò l’avvertimento e, sempre secondo la leggenda, cadde vittima del proprio fedele cavallo, che lo disarcionò e lo uccise (Lettera43). Della missiva spedita dal Santo al Duca d’Egitto non v’è traccia, e non ci è dato sapere quale origine abbia la leggenda di tale maledizione.
Tale usanza è cambiata solo nel contenitore. Come accade nell’era dell’Internet, già si parlava di testimonianze di personaggi-vittima della loro stessa interruzione della catena:
con minaccia di sventure sempre più terribili testimoniate da personaggi (ovviamente fasulli) citati con tanto di nome, cognome e luogo di residenza dei quali il mittente narrava le dolorose e raccapriccianti conseguenze a cui erano giunti causa l’interruzione della catena.
L’evoluzione, oggi, comporta la libera diffusione di messaggi virali che raggiungono ogni piattaforma, dall’indirizzo di posta elettronica al più personale numero telefonico, con la ricezione via SMS o via Telegram e WhatsApp. I profili social, ovviamente, non sono immuni da tale pratica. Abbiamo più volte rincorso copia-incolla che comparivano nelle bacheche di Facebook e si rivelavano privi di fondamento. A rendere apparentemente credibili questi messaggi è l’inserimento di allarmi a tutela di bambini, animali, donne e anziani messi in pericolo da situazioni fantasiose e dispensatrici di paura. Ancora, nel vano tentativo di acquisire credibilità si inserisce la presenza di autorità: un maresciallo dei Carabinieri, la Guardia di Finanza, la Polizia Postale e i Vigili del Fuoco. Nei tentativi più maldestri si fa riferimento a una madre che ha scoperto il pericolo, un cugino informato sui fatti e un vicino di casa minacciato. Ciò che viene chiesto è di far girare il più possibile il contenuto, perché tutti devono sapere.
Il risultato è un diffuso allarmismo, costruito facendo leva sul senso di colpa che l’utente ingenuo proverebbe se non contribuisse ad allertare a sua volta i propri contatti. In ogni caso, finora abbiamo trattato solamente la versione più innocua delle Catene di Sant’Antonio 2.0.
Nel peggiore dei casi, a farne le spese sono ignari personaggi esistenti di cui vengono diffuse foto e generalità, che si ritrovano al centro di indagini arbitrarie e vittime di rappresaglie su azioni mai compiute.
Infine, ma non per minore importanza, ci ritroviamo con le Catene di Sant’Antonio in cui viene richiesto l’investimento di una somma di denaro all’interno di un gruppo di persone: tale somma avrà un suo percorso che ritornerà all’investitore in forma moltiplicata.
Si tratta dunque di una consuetudine sempre esistita, che fa breccia sulla sensibilità umana e sull’ingenuità, bersagliate da un bombardamento di parole che stimolano una reazione compulsiva. Pericolosa, soprattutto.