C’è stato un tempo nella storia in cui aragoste e ostriche erano il cibo dei poveretti. “Junk food”, spazzatura a basso costo che i magnati avrebbero rigettato con disgusto, i gourmet rifiutato e che gli scrittori amavano descrivere come un cibo per chi non poteva permettersi altro cibo.
Ad esempio Dickens sentenziava ne “Il Circolo Pickwick” che “ostriche e povertà sembrano sempre andare in compagnia”, descrivendo l’ostrica come uno street food non particolarmente pregiato.
Coi toni di disprezzo con cui oggi un soggetto un po’ borioso descriverebbe ad esempio un cartoccio di patatine da fast food comprate in offerta, cibo percepito come “al di fuori di una dieta apprezzabile”, ma per molti cibo a portata di tasca.
Evidentemente qualcosa è cambiato, e le stesse persone che nel 1800 ti avrebbero deriso se tu avessi dichiarato di aver mangiato ostriche e aragoste oggi considerererebbero invece uno status symbol fare una mangiata di quei cibi ora pregiati, connotati di caratteristiche di potere, lusso e anche galanteria.
Quando aragoste e ostriche erano il cibo dei poveretti
Nel 1600 le aragoste erano abbondantissime nei mari, e l’abbondanza ne diminuiva l’offerta. Nel 1622 il governatore della Colonia di Plymouth negli USA dovette ammettere con malcelato imbarazzo che i suoi coloni erano così poveri da poter permettere di offrire ai loro cari “solo acqua e aragoste, e neppure una fettina di pane”, e tra i primi “diritti sindacali” dei lavoratori sottopagati della Massachussets comparve il “Non dover mangiare aragoste più di tre volte la settimana”.
Ancora nel 1800 una casa in cui si mangiavano abitualmente aragoste era descritta come “Miserabile e colma di degrado”.
Tutto questo cambiò presto, quando ci rese conto ad esempio che l’aragosta, bollita “fresca” aveva un sapore migliore che consumata dopo giorni dalla morte. Inoltre, semplicemente, quando gli americani partirono alla conquista del “Selvaggio West”, si aprirono nuovi mercati per coloni che non avevano mai visto un’aragosta alla quale potevi venderla come un esotico oggetto del desiderio.
Le aragoste divennero parte del menù delle cabine ristorante, poi del menù dei ristoranti.
La storia dell’aragosta ebbe una battuta di arresto con la Grande Depressione del 1920, quando tornò ad essere un “cibo in scatola tra i tanti” (pochi potevano permettersi i ristoranti) e nel periodo bellico, dove i cibi in scatola venivano inviati al fronte per sfamare i soldati.
Finita la guerra, il secondo dopoguerra riportò la gente nei ristoranti e l’aragosta in tavola come il piatto dei “nuovi ricchi”, dei parvenu prima, delle nuove elite poi.
Se avevi soldi da spendere, e volevi mostrarlo, mangiavi aragosta. La domanda spingeva di nuovo l’offerta, e quando le aragoste tornarono ad essere costose, il prezzo divenne la prova che erano un cibo di elite.
Parimenti le ostriche devono la loro fama all’essere state, per secoli, ammanite come “cibo di strada”. Così tanto da portarle quasi all’estinzione.
Così tanto che le ostriche rimaste al principio del XX secolo erano note come un rischio igienico più che un cibo e si dovette importare ostriche dall’oriente per “coltivarle” in acque pulite.
Aumentandone la sicurezza, ma anche il costo, e trasformandole come l’aragosta in un piatto status symbol.